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Varietà e storia dei dolci di Carnevale

Varietà e storia dei dolci di Carnevale, da Nord a Sud

Perchè sono quasi tutti fritti? Come mai il sanguinaccio è quasi sparito? Quali sono i nomi diversi assunti dalle chiacchiere? Ecco un breve tour tra varietà e storia dei dolci di Carnevale, da Nord a Sud

L’origine di dolci di Carnevale viene attribuita al periodo dei Saturnali dell’Impero Romano, che corrispondono all’odierno Carnevale. Erano chiamati “frictilia” e consumati nel periodo dei giorni di magra che precedevano la Quaresima.

La bontà di “chiacchiere” e degli altri dolci di questo periodo è da ricondurre proprio al fatto che la gran parte di essi sono fritti. Secondo le antiche tradizioni, questo tipo di cottura consentiva di utilizzare la sugna o strutto che – in questo momento dell’anno – abbondava nelle famiglie contadine, a seguito dell’uccisione del maiale. Grassi che non potevano essere conservati nè, ovviamente, sprecati.

Chiacchiere, come si chiamano da Nord a Sud

Frappole o frappe nel bolognese, cenci a Roma e in Toscana, meraviglie in Sardegna, Testi dei Turchi in Sicilia, Cunchielli in Molise, Fiocchetti in Romagna, Cioffe in Abruzzo, Cresciole nelle Marche, Grostoli o Grustal nel bellunese, Trentino, Friuli, Alto Adige e in alcune parti della Liguria. Bugie, tra Piemonte e nord della Liguria, Sossole o cenci in Veneto.

Stiamo parlando di un dolce tipicamente carnevalesco: le Chiacchiere, una ricetta quasi unica al di là del nome, magari la differenza la fanno i tipi di liquori utilizzati. Ma la farina, il lievito e le uova restano gli ingredienti principali, senza rinunciare alla spolverata di zucchero a velo (qui la ricetta).

La leggenda napoletana delle Chiacchiere

Chiamate con nomi più vicini a modi di dire, la leggenda campana sull’origine del nome resta quella più nota. Pare che il nome “Chiacchiere” risalga al tardo ‘700 a Napoli e che si possa attribuire al pizzaiolo Raffaele Esposito; lavorava alla corte della regina Margherita di Savoia ed è lo stesso che avrebbe inventato anche la famosa Pizza Margherita. La nomenclatura di chiacchiera sarebbe stata assunta in occasione di un ricevimento nel periodo di Carnevale, organizzato proprio da Sua Maestà la Regina, che avrebbe chiesto all’Esposito un dolce nuovo, da gustare in modo frugale con gli ospiti. Il pizzaiolo, prendendo la palla al balzo, realizzò delle sottili frittelle che guarnì con gocce di miele, suscitando l’unanime apprezzamento sia dei reali che degli ospiti, chiamandole chiacchiere proprio perchè si accompagnavano ad eventi sociali.

Le chiacchiere (Foto © Celestino Agostinelli).

Il sanguinaccio, un dolce di Carnevale scomparso

Tornando alla cucina contadina, carnevalesca, non va dimenticato un dolce per eccellenza, che oggi è scomparso: il sanguinaccio, un mix di sangue di maiale, cacao, caffè e altre spezie. Una vera specialità del periodo, frutto della pratica di utilizzare ogni ingrediente del suino dopo sua macellazione, effettuata tra gennaio e febbraio. Impiegato anche per scopi terapeutici, a un certo punto è stato vietato per motivi igienici e per scongiurare infezioni. Tuttavia, in alcune zone montane tipicamente contadine, ci sono ancora famiglie che ne tengono viva la tradizione culinaria, adottando pratiche molto più elaborate che ne garantiscono la genuinità e sicurezza alimentare.

Sanguinaccio.

Il migliaccio, le “chinule calabresi” e la pignolata

In molte regioni meridionali, accanto alle chiacchiere, appare ancora il “migliaccio” (qui la ricetta), dolce di origini medioevali che deve il suo nome al termine latino miliaccium, che fa riferimento al classico pane di miglio.

Tra la cucina carnevalesca contadina, e in particolare tra i dolci, ci sono quelli considerati un simbolo di buon auspicio come le “chinule calabresi”, ravioli ripieni di ricotta e fritti, con frutta secca e miele in aggiunta alla farcia.

C’è poi la “pignolata”, simile agli struffoli napoletani o alla cicerchiata abbruzzese, una serie di palline di farina, uova e zucchero fritte nello strutto o nell’olio e ricoperte di miele. In alcune località pugliesi, si preparano le “ferrate”, tortine di pasta sfoglia ripiene di farro, ricotta, maggiorana, sale e cannella, nate in epoca romana. Ma ci sono anche i “purcidduzzi”, versione locale degli struffoli, la cui ricetta viene ancora conservata fino alla Sicilia, insieme alle “dita degli apostoli” (qui la ricetta), dolce di origini antichissime grazie alle monache dei conventi, cucinati per recuperare gli albumi avanzati dalle altre preparazioni.

La cicerchiata abruzzese corrisponde agli struffoli napoletani.

Paese che vai usanze e cucina che trovi, diceva un vecchio adagio, ma la nostra bella Italia, conserva un vero patrimonio culinario, che ancora oggi dopo secoli, se non millenni, rappresentano l’identità delle tante comunità che della cucina tricolore hanno fatto un simbolo culturale.

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Celestino Agostinelli

Laurea in Scienze Politiche e Master in comunicazione, da molti anni è giornalista del quotidiano Il Mattino di Napoli e di altre testate. Per La Gazzetta del Gusto, è corrispondente per Campania, Molise e Puglia.

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