Cibo Sardegna

Il cappero di Selargius diventa Presidio Slow Food per difendere la terra dalla speculazione

Cappero di Selargius: storia del nuovo Presidio Slow Food
CapperI di Selargius (Foto © Archivio Slow Food).

Alle porte di Cagliari, due produttori coltivano una varietà autoctona, sfidando l’avanzata del cemento

Nella crescente periferia di Selargius, uno dei centri urbani più popolosi della Sardegna, due agricoltori hanno dichiarato guerra alla speculazione edilizia con un alleato inaspettato: il cappero autoctono. La varietà è stata recentemente riconosciuta come nuovo Presidio Slow Food, simbolo di resistenza agricola e tutela della biodiversità.

«Siamo vicini alla città, in un’area di forte espansione urbanistica», racconta Marco Maxia, 48 anni, referente del Presidio e coltivatore di capperi da oltre venticinque anni. Dopo un’esperienza lavorativa a Londra, Maxia è tornato in Sardegna spinto da quello che definisce “mal di Sardegna”, un’attrazione nostalgica per la terra natale e il mare.

Tuttavia, riprendere l’attività agricola non è stato semplice.

«In campagna, senza soldi e senza terreno, è difficile partire da zero, specialmente così vicini alla città, dove i terreni costano più per le costruzioni che per le coltivazioni», spiega.

Marco Maxia durante la coltivazione del cappero autoctono (Foto © Archivio Slow Food).

Cappero di Selargius: nasce da una sfida il nuovo Presidio Slow Food

La svolta è arrivata in un giorno d’estate, quando Marco e la sua compagna Emanuela notano, tra le terre aride di Selargius, cespugli verdissimi di capperi, abbandonati ma rigogliosi.

A differenza delle varietà più comuni, il cappero di Selargius si distingue per il suo portamento eretto, simile a un piccolo alberello che può raggiungere fino a un metro e mezzo di altezza. «Un’altra peculiarità riguarda i boccioli, i veri capperi: sono più piccoli e più leggeri rispetto ad altre varietà», spiega Maxia.

Negli anni Ottanta, quando i capperi nordafricani iniziarono a invadere il mercato, questa caratteristica fu considerata un limite: la produzione locale richiedeva quasi il doppio dei boccioli per ottenere un chilo di capperi rispetto alle varietà importate, determinandone l’abbandono.

La tipica forma ad alberello, che può raggiungere il metro e mezzo (Foto © Archivio Slow Food).

La raccolta del cappero, inoltre, è un’arte complessa: deve avvenire nelle prime ore del mattino o di sera, e talvolta perfino al chiaro di luna, quando i boccioli sono più sodi. Eppure, il cappero di Selargius compensa con la sua qualità unica: «Il risciacquo dal sale è più rapido, non necessita di un lungo ammollo e il sapore risulta più intenso e immediato».

Un riscatto agricolo e sociale

Oggi, Marco Maxia gestisce circa 600 piante, tutte recuperate da terreni abbandonati, spesso presi in affitto. «Il cappero è orgoglioso e testardo: ha resistito a decenni di abbandono ed è lui che ha trovato noi», afferma con orgoglio.

Il valore di questa iniziativa va oltre la produzione agricola. «Far rivivere la campagna è fondamentale: un terreno ben lavorato protegge non solo dalla speculazione edilizia ma anche dagli incendi», sottolinea Maxia. Accanto a lui, Enrico Dentoni è l’altro produttore che ha aderito al Presidio, con la speranza che altri proprietari locali si uniscano presto al progetto.

Marco Maxia e Enrico Dentoni attualmente sono gli unici coltivatori del cappero di Selargius (Foto © Archivio Slow Food).

La voce di Slow Food

Fabrizio Mascia, referente di Slow Food Cagliari, sottolinea l’importanza di questa iniziativa per la tutela della biodiversità e della cultura locale.

«Un tempo, avere cespugli di capperi tra vigneti e uliveti era normale. Questa pianta non rappresenta solo un prodotto agricolo, ma una memoria storica e culturale. Con il Presidio, vogliamo salvaguardare un paesaggio unico, supportare un’agricoltura sostenibile e opporci alle speculazioni sul territorio».

La storia del cappero selargino è un esempio concreto di come la riscoperta di una tradizione agricola possa trasformarsi in un atto di resistenza contro l’urbanizzazione incontrollata. Un piccolo arbusto che, come simbolo di resilienza, difende il paesaggio e il patrimonio culturale della Sardegna.

Info: www.fondazioneslowfood.com

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Enzo Radunanza

Giornalista e addetto stampa, mi occupo di enogastronomia dal 2010. Nel 2019 sono stato nominato "Ambasciatore dei vini dell’Emilia Romagna" per la mia costante attività divulgativa. Inoltre, sono copywriter e digital media marketer per varie realtà. Per tutti sono anche "Il Cronista d'assaggio".

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