Il vino cotto, l’antica alchimia contadina

“U vi cuott” è la bevanda della gratuità, l’antico vino che i contadini di Marche e Abruzzo preparavano nelle aie delle case coloniche e offrivano come simbolo di accoglienza, il dono della festa e per le feste.

Immagina una stalla in una serata fredda d’inverno di qualche secolo fa; osserva il vapore caldo degli animali che sale tra i muggiti e prova ad avvertire l’odore forte del fieno. Un vecchio, a lume di lanterna, racconta una storia ai nipoti incantati mentre le donne lavorano i ferri.

Se sei riuscito a catapultarti in questa suggestiva atmosfera di immagini, odori e voci, allora saprai da dove e come nasce il vino cotto, un prodotto della tradizione contadina tipico di Marche e Abruzzo, in particolare delle province di Ascoli Piceno e Teramo, dove veniva preparato in casa o meglio nella aie delle case coloniche.

Come tanti prodotti antichi, anche la ricetta dell’“U vi cuott”, come si dice nei dialetti locali, è il frutto di pratiche codificate oralmente e tramandate, di generazione in generazione, attraverso gli esempi. Ad onor del vero, più che un prodotto il vino cotto si deve considerate un “bene”, un valore materiale per il quale sia le famiglie che le comunità hanno investito fatica, ingegno e dedizione.

Cenni storici sul vino cotto

La pratica di cuocere il mosto è citata già nei trattati di agronomia latina. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). nella sua “Historia naturalis” ne parla diffusamente, così come Lucio Giunio Moderato Columella (4-70 d.C.) nel “De Re Rustica“.

Più tardi altri riferimenti li troviamo nei resoconti dei vari compilatori e assaggiatori di vini, incaricati dai Papi rinascimentali, come Sante Lancerio bottigliere di Papa Paolo III (Lettera sulla qualità dei vini) e Andrea Bacci, filosofo e medico elpidiense al soldo della famiglia Colonna (De naturali vinorum historia).

Le notizie storiche e bibliografiche descrivono il vino cotto come prodotto voluttuario e tralasciano sia gli aspetti socio culturali che danno origine alla pratica chee le indicazioni dettagliate degli strumenti e delle procedure per produrlo.

Come nasce la tradizione del vino cotto

U vi cuott è il frutto delle necessità. I contadini, per secoli, sono stati braccianti agricoli e lavoravano stagionalmente. Per la vendemmia venivano pagati con qualche cesta di uva, spesso l’uva meno pregiata il cui vino sarebbe inacidito dopo nemmeno un mese.

La cottura del mosto non fermentato aumenta la carica zuccherina e, di conseguenza, il volume percentuale di alcool che consente una sicura longevità al vino. I contadini scoprirono poi che in botte il vino migliorava di anno in anno soprattutto se, ad ogni vendemmia, i contenitori venivano rimboccati con il vino nuovo. Così oggi ci sono famiglie che conservano botti centenarie che raccolgono le vendemmie dei padri.

Come si produce il vino cotto

Il mosto fresco, appena pigiato, è la materia prima principale. Quando ancora si vendemmia, nell’aria delle contrade tra le colline chiare ed aspre si spande fragrante l’odore della cottura del mosto.

Chi fa il vino cotto possiede una vigna oppure acquista l’uva o il mosto d’uva appena pigiato da un vicino. Ad esso si aggiunge qualche mela cotogna e si utilizzano pochi e semplici elementi come il fuoco, una verga di ferro ed una schiumarola.

Le mele cotogne

Il disciplinare prescrive che, per aromatizzare il vino, va impiegata una mela cotogna per ogni quintale di mosto. Il frutto conferisce una fragranza particolare al vino, rende la componente acido-vinosa più rotonda e morbida come una stoffa vellutata. L’utilizzo della mela cotogna è tradizione del Piceno mentre nel Teramano non viene impiegata.

Il caldaro di rame e la verga di ferro

Cuocere il mosto fresco è un arte, una pratica artigiana e allo stesso tempo religiosa nel senso che la sua produzione lega gli interessi individuali a quelli della comunità. Lo strumento principale, l’athanor degli alchimisti, è il caldaro di rame.

La lavorazione del rame è una pratica molto diffusa ancora oggi nel territorio piceno e teramano dove alcune famiglie lo trattano da anni. La cottura in questi recipienti è un’operazione delicata perchè ogni liquido che abbia una certa acidità, se versato a freddo nel rame, ne può corrodere la superficie e innescare in soluzione il solfato di rame o verderame, una sostanza estremamente tossica.

Per evitare la formazione del verderame, si immege una verga di ferro nel mosto già versato nel caldaro e si lascia fino alla prima bollitura.

Il fuoco e la schiumarola

L’alimentazione del fuoco deve essere sostenuta e costante, affinché il preparato sia sottoposto ad ebollizione continua, una fase che permette di pastorizzare il mosto e che purifica il liquido. Infatti affiorano tutte le scorie, detriti e polveri che vengono asportati con la schiumarola.

Quest’ultima acquista anche un valore ludico-educativo in quanto è l’attrezzo che si cede volentieri ai bambini che iniziano così l’apprendistato della cottura del mosto.

Il conservato, il cotto e la sapa

I tempi di bollitura del mosto dipendono dalla quantità e qualità di vino che si desidera ottenere. Il conservato, mezzo cotto mezzo crudo, si produce nelle zone di montagna ed è il risultato di una leggera bollitura.

Per ottenere il vino cotto vero e proprio si deve ridurre il mosto a disposizione di un terzo oppure della metà, a seconda della tradizione famigliare. Quando si arriva ad una riduzione di ben oltre metà si entra nel mondo della sapa, un concentrato di mosto che si utilizza soprattutto nei condimenti e nella produzione dei dolci.

Botti di legno di castagno o di rovere e l’importanza del tempo

Completata la cottura del mosto, il vino si mette a raffreddare in tini o contenitori provvisori e successivamente si rimboccheranno le botti degli anni precedenti. Esiste anche una tecnica antica, ora non più in uso, che è quella di versare in una botte vuota il vino ancora bollente.

La botte di legno di castagno è il mezzo più utilizzato secondo la tradizione perchè le montagne di Marche e Abruzzo fornivabo in abbondanza questa tipologia di legno. Il castagno ha caratteristiche idonee alla conservazione del vino in quanto è molto resistente nel tempo e non rilascia troppi sentori di legno al vino.

Negli ultimi anni si fa largo uso anche della barrique di rovere, anche se bisogna aspettare molti anni per giudicare il risultato dell’invecchiamento.

Il tempo è un’altra componente che determina la qualità del vino cotto. Ci vogliono molti anni perché la struttura del vino e le sue note aromatiche si stabilizzino compiutamente. Ad ogni primavera il vino rifermenta in botte e, ogni anno, evolvono le sue proprietà organolettiche.

In sisntesi si tratta di un prodotto in continua evoluzione e una botte di vino cotto è una specie di allevamento di vendemmie passate che si rinnovano.

Curiosità, usi e abbinamenti

U vi cuott accompagna la degustazione di una vasta gamma di dolci, per la preparazione dei quali è largamente usato.

È il vino necessario alla lavatura dei budelli per gli insaccati di maiale, aromatizza le carni per le salsicce e i salami. È il vino degli altari, usato dai sacerdoti durante la funzione della comunione e assume anche tradizionalmente funzioni medicamentose: bollente con miele ha proprietà benefiche contro i raffreddori e le influenze.

Oggi, nel mondo delle denominazioni, dei disciplinari legislativi, delle indicazioni protette e geografiche, nei presidi di ogni sorta un prodotto del genere appare inattuale. Resiste la sua natura rustica e contadina che mal si modella coi tempi nuovi.

Le Amministrazioni regionali di Marche e Abruzzo negli ultimi anni hanno legiferato riguardo la produzione e la commercializzazione del vino cotto. Alcune cantine producono e vendono il cotto ma resiste ancora l’idea che ”u vi cuott” sia la bevanda della gratuità, il vino che si conserva in famiglia e si tira fuori nelle per accogliere un ospite, il dono della festa e per le feste.

Articolo di Antonio Mestichelli