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Bologna, la “Foodification” ha ridisegnato la città. Ma a quale prezzo?

Foodification a Bologna: origine, cause ed effetti
Immagine realizzata con ChatGPT

Sotto le Due torri, a fine 2022, sono stati censiti 1529 locali tra bar e ristoranti all’interno delle mura, uno ogni 35 abitanti. Un fenomeno “cibocentrico” che non ha solo aspetti positivi ma influisce anche sul sociale e spesso è in contrasto con la qualità dell’offerta

© Articolo di Patrick Cerqueti

L’Italia ha una tradizionale passione per il cibo, secondo alcuni una vera ossessione. Lo sa bene la città di Bologna che, dal 2014, si è fregiata a livello internazionale del titolo di City of food.

Il progetto di city branding ideato dall’amministrazione Merola, fu sviluppato da Matteo Lepore (già assessore al turismo e attuale Sindaco) e coordinato da Roberto Grandi. Complice il fermento intorno al cibo che, nel 2015, si respirava per l’Expo di Milano, il capoluogo felsineo puntò su enogastronomia e turismo per rilanciare l’economia cittadina e promuoverne lo sviluppo futuro.

Tra le tante iniziative di varia natura legate a “Bologna City of food”, fu posta molta attenzione all’educazione alimentare al fine di promuovere un’alimentazione sana e consapevole anche scegliendo prodotti tipici emiliani. Proprio in questo contesto si inserì anche l’inaugurazione, nel 2017, di FICO, il progetto visionario di Oscar Farinetti che avrebbe dovuto presentare ai turisti internazionali la biodiversità agroaliementare e le eccellenze del nostro Paese. Sappiamo tutti com’è finita: dopo alterne vicende, Fico ha chiuso i battenti e riaprirà a settembre con il nome di Grand Tour Italia (ne abbiamo scritto qui).

Una panoramica del capoluogo emiliano.

Bologna da City of Food a Foodification

Ad avvantaggiare il turismo enogastronomico a Bologna, arrivarono anche il potenziamento infrastrutturale raggiunto, nel 2008, con la linea dell’alta velocità e l’accordo tra l’aeroporto Guglielmo Marconi e la compagnia aerea low-cost Ryanair. In città, infatti, si registrò un incremento vertiginoso di turisti: dal 2002 al 2023 il numero è praticamente raddoppiato, passando dai quasi 760.000 a 1.432.000 milioni di persone rilevate nel 2023.

Corrispondentemente si registrò uno sviluppo eponenziale del comparto ristorativo: secondo le rilevazioni della Camera di Commercio, dal 2009 al 2018, si è verificata una crescita della ristorazione sotto le due torri del 27%, quasi il doppio della media nazionale, e del 72% per i take-away.

Nel 2022, all’interno delle mura, sono stati censiti ben 1529 locali tra bar e ristoranti su 53.152 residenti del centro: uno ogni 35 abitanti. Mentre i negozi al dettaglio arrancano e chiudono, osterie e street food spuntano come funghi all’ombra dei portici. Va anche detto che, in realtà, si tratta di un fenomeno urbano che non riguarda solo Bologna e per descrivere il quale i sociologi hanno coniato il termine “foodification”.

Cosa vuol dire foodification?

Il termine foodification viene utilizzato per la prima volta nel 2010 dal Brooklyn Paper per descrivere una nuova forma di gentrificazione, non più legata strettamente all’arte e alla cultura o alla sostituzione dei vecchi residenti, ma piuttosto alla presenza dei “foodie”.

La parola è l’unione di food e gentrification (il processo per cui alcune zone dimesse delle città vengono ristrutturate, rimesse a nuovo e offerte a classi sociali più elevate delle precedenti). Per le amministrazioni locali, quindi, il cibo diviene un veicolo per attrarre cittadini e turisti, al fine di riqualificare aree degradate.

Ma la foodification non ha solo aspetti positivi in quanto porta con sé alcune criticità analizzate da vari studi accademici, che si possono condensare in due macro-dinamiche. La prima è quella della sostituzione commerciale, per cui i vari negozi al dettaglio di quartiere vengono rimpiazzati da bar e ristoranti, impoverendo la varietà merceologica a disposizione della comunità e mutando la vivibilità di alcune zone o quartieri.

Il secondo problema è quello dell’esclusione abitativa. La trasformazione progressiva di case, prima date in affitto a lavoratori e universitari, in strutture ricettive extra-alberghiere (Bed & Breakfast e appartamenti ad uso turistico) è un tema scottante al centro di diverse proteste e che ha trovato voce in diversi articoli di giornali usciti negli ultimi anni (al riguardo, si parla anche di “desertificazione” per descrivere lo “svuotamento” dei centri storici in favore di locazioni brevi destinate ai turisti). Una situazione aggravata dal fatto che il settore ristorativo è spesso rappresentato da una manodopera precaria con contratti brevi e irregolari, retribuiti con paghe misere che non consentono una vita dignitosa.

Il calo degli stipendi nella ristorazione

Dati alla mano, gli stipendi medi annui nel settore dei servizi di alloggio e di ristorazione sono scese da 12.500 euro nel 2019 a 10.500 euro nel 2021 (Sintesi dell’Osservatorio sull’economia e il lavoro nella città metropolitana di Bologna, IRES Emilia-Romagna 2023).

Da non trascurare la bassa qualità della proposta, orientata ad un turismo “mordi e fuggi”, spesso con prezzi esorbitanti che finiscono per penalizzare i residenti. Vedasi, in particolare, il proliferare di locali con una proposta basata su taglieri e panini con salumi e mortadella di scarsa qualità e con l’effetto di mortificare la ricca varietà gastronomica di Bologna.

Una presa di coscienza del Comune sulle conseguenze negative portate dalla politica promozionale ha visto l’introduzione nel 2019 del Decreto Unesco, poi prorogato fino al 2025. Un’iniziativa nata per tutelare il patrimonio storico, culturale e artistico del centro storico attraverso il blocco di nuove aperture tra ristoranti, supermercati, compro oro e internet point. Peccato che, grazie ad alcune deroghe, siano comunque state aperte nuove attività tra cui la più emblematica è sicuramente Starbucks nella centralissima Via d’Azeglio.

Un ristorante bolognese in piena attività.

La politica alimentare sotto le due Torri

Tra gli obiettivi del manifesto di City of food c’era la promozione della sana alimentazione. La sensazione è che, a distanza di 10 anni, le ragioni educativo-culturali siano state più uno “specchietto per le allodole” e che, su di esse, abbiano prevalso finalità di natura economico-commerciale, se non speculativa.

In un momento storico in cui siamo gravati da una pesante inflazione, dovuta sia a ragioni di natura geopolitica che di carattere prettamente finanziario, tutto ricade sulle tasche dei residenti a Bologna con progressivo calo del potere d’acquisto soprattutto per le fasce più deboli.

A questo punto, ci sarebbe bisogno di un’inversione di rotta, trattando il cibo non come attrazione turistica ma come un bene comune necessario e disponibili a tutti.

La speranza è da riporre in nuove iniziative istituzionali, come per esempio la Politica Alimentare Urbana e Metropolitana (Paum), il cui focus è rivolto alla «volontà di rendere accessibile a tutte le persone un’alimentazione sana, equa, sostenibile e culturalmente appropriata, promuovendo la sicurezza alimentare e la nutrizione sostenibile, nonché lo sviluppo economico e la gestione sostenibile delle risorse naturali».

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