Ruchè di Castagnole Monferrato Ferraris (2022): segno diVino e di successo

Ruchè Vigna del Parroco: storia e caratteristiche annata 2022

Una Docg, relativamente giovane, ma che racconta una storia di terroir autentica ed evocativa

Quando la storia di un vino e di un territorio diventa Storia condivisa. Il tutto all’insegna della reinterpretazione della locuzione “ora et labora” in “labora et ora”. Un successo nato da una suggestione personal-pastorale, in terra piemontese, che si fa sudore, tenacia e poi sorso.

Stiamo parlando del Ruchè di Castagnole Monferrato Docg Vigna del Parroco dell’azienda Ferraris. Siamo in provincia di Asti, anzi nel suo cuore, lungo la direttrice con Alesandria. Un vitigno, il Ruché, le cui origini sono antiche; le prime testimonianze scritte risalgono, infatti, al 1700. Oggi però questa antica presenza in vigna si fa lessico enoico contemporaneo. Dal punto di vista colturale stiamo parlando di una DOCG tra le più piccole in Italia e tra le più giovani: nel 2024 compirà 14 anni.

La storia del Ruché, nato dalle cure di un parroco di campagna

Da uva da tavola o da taglio, salvo qualche domestica testimonianza “in purezza” anche se iper zuccherina, il Ruché oggi parla una propria lingua, schietta e secca. Tutto questo grazie all’intuizione di un parroco di campagna: Don Giacomo Cauda. Classe 1927 e di famiglia contadina, Don Giacomo arriva a Castagnole Monferrato come sacerdote nel 1964. Qui trova una parrocchia con alcune vigne abbandonate. La scintilla scatta immediatamente. La liturgia richiede, al contempo, risparmio e derrate enoiche certe. E così con duro e costante lavoro, che porteranno lo stesso parroco a dichiarare: «Che Dio mi perdoni per aver a volte trascurato il mio ministero per dedicarmi anima e corpo alla vigna. Finivo la Messa, mi cambiavo in fretta e salivo sul trattore. Ma so che Dio mi ha perdonato perché con i soldi guadagnati dal vino ho creato l’oratorio e ristrutturato la canonica», inizia la storia del Ruché.

Vigna del Parroco: la prima vendemmia e la nascita dell’etichetta

La prima vendemmia, quella del 1964, porta il prelato agronomo (improvvisato)-vignaiolo a realizzare 28 bottiglioni grazie alle 8 giornate e mezza di Ruchè, nell’ancora oggi esistente “Vigna del parroco”. (La giornata piemontese equivale a circa 3.810 mq). Nasce così l’etichetta alata del Ruchè Vigna del Parroco.

Superando le perplessità e le ritrosie popolane, negli anni ’80 il fenomeno Ruchè comincia a prendere consistenza. Altri produttori lo piantano e lo vinificano. Un aumento di appezzamenti vitati e bottiglie vendute, oggi siamo al milione, che nel 1987 vede arrivare la Doc. Una ventina di anni, dopo la scommessa di Don Giacomo Cauda, la proprietà del vigneto viene ceduta a Francesco Borgognone, personaggio che accompagna il Ruchè a ottenere, nel 2010, la Docg. Nel 2016 Borgognone vende l’unico vero Cru del Ruchè al giovane produttore Luca Ferraris, dell’omonima azienda (realtà famigliare nata nel 1921).

Gli antenati del Ruchè e il vino oggi

Il dna del Ruchè lo apparenta a due vitigni tipici del nord Italia, la Croatina e la Malvasia aromatica di Parma. Oggi la Docg si estende su sette comuni: Castagnole Monferrato, Montemagno, Viarigi, Refrancore, Scurzolengo, Portacomaro e Grana. Nel 2016 risultavano 136 ettari coltivati (erano 10 nel 1988), 35 aziende e oltre 700mila bottiglie prodotte contro le attuali 1,1 milioni. Il 35% del vino è esportato.

Il Ruchè è un vitigno a bacca nera. L’uva matura (solitamente, ma il climate change non aiuta) verso metà di settembre. L’acino è di media grandezza, l’uva molto zuccherina e ricca di precursori aromatici, soprattutto terpenici. Viene vinificata in rosso ottenendo un vino secco, leggermente aromatico, dal colore rosso rubino, di corpo e tannicità.