Il segreto di Drengot nella vendemmia delle emozioni

Uno spettacolo affascinante fatto di vigne antichissime e “uomini ragno” che si arrampicano su viti che toccano il cielo. Un intreccio d’amore tra passato e presente nel racconto di un territorio e nell’Asprinio delle cantine Drengot

Carico di storia e di leggenda, l’Asprinio è un universo del vino tutto da raccontare. Intimamente legato al fascino di una viticoltura unica al mondo: le “alberate aversane” e le sue viti avvinghiate e “maritate” a pioppi secolari, come fossero vecchi amanti.

Franche di piede e per questo fiere e maestose, forti e potenti, capaci di superare anche i 15 metri di altezza: un paesaggio spettacolare che domina ormai solo 200 ettari sparsi a macchia di leopardo nell’Agro Aversano, tra Napoli e Caserta. Monumenti verdi del nostro Sud di cui si parla sempre troppo poco, giardini profumati di storia che resistono grazie a pochi produttori coraggiosi e contadini volanti dal sapere senza tempo e senza età. Agili come acrobati e custodi di un mestiere antico a rischio di estinzione, sono chiamati “uomini ragno” per la loro abilità di inerpicarsi a tali altezze.

Dalla potatura alla raccolta, è tutta una prova di equilibrio su altissime e strette scalette di legno. Il segreto e il fascino dell’Asprinio è tutto questo e molto altro ancora: è tradizione millenaria che segue tecniche antiche ben lontane dal concetto di modernità e dal paradigma dell’agricoltura 4.0. È vigore e fascino mediterraneo. È patrimonio culturale ancor prima che economico. È «un piccolo, grande vino che non ha il mercato che meriterebbe di avere» come diceva Veronelli. Autentico e sospeso nel tempo, come le sue viti che si arrampicano verso il sole, quasi a voler toccare il cielo.

Drengot: bottiglie di emozione ed eleganza

Il passato e il moderno si incontrano nell’azienda Drengot, giovane cantina di Cesa (CE) che ha scelto di puntare il suo futuro sul legame con il territorio. Piccola ma forte dei suoi due ettari e mezzo di storia, vigne ad alberata che hanno mediamente 200 anni di età e che l’imprenditore Alberto Verde ha ereditato dalla sua famiglia.

«Sono cresciuto tra le vigne di mio nonno – racconta il fondatore di Drengot – ci giocavo con i miei cugini e per noi queste alberate così alte erano un campo di calcio naturale. Da adulto, lontano dalla mia città, ho capito che dovevo far conoscere al mondo l’Asprinio e non lasciare morire le nostre tradizioni».

Una scelta coraggiosa considerando che per ogni ettaro coltivato, la resa dell’uva arriva a stento al 50%. Nessun compromesso con la modernità e solo Asprinio in purezza, per poche e preziose bottiglie di emozione ed eleganza.

Alti costi di gestione in vigna (una sola vendemmia costa almeno il triplo di una normale) e pochi gli “uomini ragno” capaci di destreggiarsi tra le altissime pareti verdi di Asprinio. Motivi per i quali, nel resto dei 22 comuni ricadenti nella DOC, la scelta tende sempre più a favore di impianti a spalliera non più alti di 1 metro e 80.

Asprinio, un vitigno tra storia e leggenda

L’Asprinio è un vitigno vigoroso e dalle produzioni abbondanti che nelle alberate cresce libero e punta verso il cielo, permettendogli così di vivere lontano da malattie e umidità. Scenografico nel suo comportamento lianoso ma ostico e incontrollabile. Vissuto quasi all’ombra del Greco di Tufo, sebbene studi recenti l’abbiano indicato geneticamente identico, è la sua particolare propensione alla spumantizzazione che lo rende unico e affascinante per il bagaglio storico che porta con sé.

Si dice (e ci piace pensarlo) che sia stato il primo spumante mai prodotto in Italia. Tra storia e leggenda, infatti, fu Roberto D’Angiò, re di Napoli, ad elevarlo a spumante di corte, chiamando dalla Francia il cantiniere Louis Pierrefeu che individuò i luoghi più adatti e le uve migliori per soppiantare lo champagne dalla madrepatria e arrivare poi all’Asprinio, definito come un vino frizzante, con spiccata acidità e citrino al gusto.

Terramasca e Scalillo, le chicche di Drengot

Due le “chicche” enologiche di Drengot: Terramasca e Scalillo. Entrambe da Asprinio in purezza allevato ad alberate, su terreni di origine vulcanica e composti da tufo giallo. Tradizione vuole che le bottiglie riposino al buio e nel segreto delle lunghe e profonde cave di tufo che attraversano il comune di Cesa.

L’idea enologica di Alberto Verde è semplice quanto importante e si fonda su territorialità e tipicità, con classe e unicità. Terramasca, dal nome duro e selvaggio che richiama l’origine vulcanica di queste terre, è l’eleganza spumantizzata dell’Asprinio, ottenuto con metodo Charmat in numero limitato, circa 13.000 bottiglie. Concepito per palati esigenti, è il superbo racconto di un territorio dove il vitigno è protagonista.

Scalillo, invece, prende il nome dalla lunghissima scala adoperata durante la vendemmia, i cui pioli sono costruiti su misura della distanza tra ginocchio e caviglia del “contadino volante”. Elegante, fresco ed equilibrato, ogni bottiglia è numerata a testimonianza dell’esigua produzione: circa 6/7.000 bottiglie, a seconda dell’annata.

Vinificato in acciaio e calice paglierino che svela un corredo di profumi deciso di fresche note agrumate, fiori di limone e cedro, frutta esotica e ananas. La bocca è agile e conferma gli aromi del naso su una base fresca e lungamente sapida, equilibrata e scattante. Un vino dal fascino antico che più tradizione non si può. A ricordo di quegli ettari praticamente quasi scomparsi, mentre le vigne di Drengot (meno male) sono ancora lì a Villa Literno che si stagliano verso il cielo, guardando in faccia il sole e respirando l’aria marina della costa che da qui dista solo 15 chilometri. Fiere della loro tradizione millenaria e della loro autenticità. Vendemmia dopo vendemmia.